Maramureș 1998
La civiltà romena è civiltà del legno, della sua bontà e della sua forza, della religiosa e solida mitezza di utensili familiari, delle panche e delle tavole che conservano nella casa il ricordo dei grandi boschi nei quali, anticamente, la popolazione autoctona cercava sicuro rifugio dinanzi all’invasore di turno.
Claudio Magris, Danubio (1984).
Se l’Italia ha dato al mondo la civiltà del marmo e della pietra, il Maramureș ha dato al mondo la civiltà del legno.
Da Bucarest con il treno, per raggiungere Vatra Dornei, cambiamo a Pașcani, una piccola città moldava, in realtà villaggio fatto città dall’industrializzazione. Nella piazza c’è un po’ di verde pubblico, il mercato, la stazione, alcune palazzine prefabbricate e questo è tutto. Sono le cinque del mattino. Pendolari arrivano con un treno e invadono come formiche il corso principale. Inizia la giornata a Pașcani.
Da Vatra Dornei il pullman per Borșa è solo alle due e mezza. Incerti cerchiamo con l’autostop. Pochi minuti di attesa e un signore, di professione esportatore di funghi in Italia, ci porta fino a Iacobeni, anzi allunga e ci porta fino all’intersezione con la statale per Borșa. Qui, ancora dopo un’attesa sorprendente per quanto breve, la famiglia Rudeanu di Iasi, marito, moglie e Ralucă di otto anni, ci carica a fatica, per il poco spazio libero lasciato dai loro bagagli, con i nostri zaini. Vanno proprio a Borșa. Si conversa, sono incuriositi dalla nostra coppia, un italo-romeno e una ceca, in viaggio verso il Maramureș.
Sulla strada per Borsa ci fermiamo attratti dal cartello “Museo delle radici”. Il Museo delle radici è una stanza di una casa tipica di questa zona, casa fatta in legno. Sono esposte molte radici di albero lavorate, intarsiate, dipinte e raffiguranti cose, animali, persone. Chiedo alla padrona di casa, la signora Grec, di farmi vedere la sua stanza, dove dorme e mangia, dove si nasce e dove si muore – dove vive, me la mostra senza esitazioni. Mi colpisce, appare come le molte stanze viste al Museo del villaggio di Bucarest.
La signora poi ci guida nella sua gospodarie, la parola romena che indica il complesso di una casa rurale.
C’è una lavatrice naturale, con acqua di ruscello, in pratica una conca di legno filtrante su cui cade l’acqua corrente, si buttano dentro i panni: senza sapone e in poco tempo escono puliti. Un mulino che genera corrente elettrica.
Per assicurare a questi due ‘elettrodomestici’ l’acqua regolarmente è stato costruito un laghetto artificiale una decina di metri più a monte. Il ‘museo’ è senza tariffa di ingresso fissa. Lasciamo un contributo, la signora poi ci chiede una foto insieme, ci dà l’indirizzo chiedendoci di spedirle una copia, quindi ci indica un sentiero per poter andare a raccogliere more e fragoline. Saliamo godendo il panorama della valle, gustando le more e l’acqua fresca di sorgente.
Continuiamo il viaggio fino a Borsa, ma prima ci fermiamo sul passo Prislop, dove ogni anno la seconda domenica di agosto, cioè per noi la domenica precedente, si tiene un tradizionale festival di musica e danza popolare che raccoglie agli abitanti della zona. Sul passo prendiamo quindi una birra in compagnia dei Carpazi. A Borșa saliamo con la seggiovia fino a 1400 metri, d’inverno si scia. Io e Barbora ci sdraiamo sul prato, ascoltando il silenzio, seguendo con lo sguardo le creste dei monti.
A Moisei ci separiamo dalla famiglia Rudeanu. Loro avrebbero voluto portarci in giro anche il giorno seguente, siamo onorati ma vogliamo continuare da soli. Ringraziamo e proseguiamo.
Con un passaggio arriviamo a Sacel, il primo villaggio della valle dell’Iza. Lo percorriamo, e intanto vedo una casa bellissima, un bambino è sulla porta, lo chiamo, gli chiedo se ci sia la mamma.
“Signora, possiamo vedere la sua casa?” – “Perché?… volete vedere come sono le case del Maramures…”, mi risponde ridendo.
La casa è stupenda. Integralmente in legno, con un alto tetto spiovente fatto di tante piccole scaglie, l’interno è diviso fra la cucina, dove dormono anche i bambini, ne contiamo quattro, e la stanza principale. Questa non ha un centimetro libero, tutta è ricoperta. Per terra tanti tappeti, di varie dimensioni, che in parte si sovrappongono, molto colorati. Sulle pareti stoffe fatte al telaio, ricamate con disegni di orsi, di cervi, di monti. Il ritratto della natura qui. Mobili di legno, come di legno gli oggetti. Il letto alto e avvolto da calde e grosse coperte con tutti i colori dell’iride.
Continuiamo verso il centro. Ho sete, mi fermo e chiedo ad una vecchia se mi può dare un po’ d’acqua dal suo pozzo, da cui sta già tirando un secchio. Lo fa a fatica, facendomi subito pentire della mia richiesta, le chiedo cos’abbia, respira con difficoltà, ha l’asma e gli occhi gonfi.
Le ha fatto male l’aspirina che le ha dato il dottore, mi dice. Le provo a dare una boccata del mio Ventolin anti-asma, non riesce bene a prenderlo, ma mi sorride, ringrazia, dice di sentirsi meglio. Salutiamo.
Arriviamo in centro. Chiediamo a delle persone dove possiamo dormire, uno ci dice di aspettare, entra in un bar, esce, ci dice “ho trovato, è una brava ragazza: una professoressa, sa il francese”. Entriamo anche noi nel bar, quasi tutti sono contadini, sporchi dalla giornata di lavoro. In mezzo a tanta virilità la ragazza, Aurica, mi parla in francese, le spiego che so il romeno, ci dice che possiamo stare da lei, senza problemi. Quando le chiedo quanto voglia risponde che “non è per i soldi” che lo fa, facendomi sentire un po’ in imbarazzo.
Andiamo a mangiare nel piccolo ristorante accanto. Finalmente Barbora può assaporare la cucina romena dopo che da venti ore ne è sul territorio.
Torniamo al bar, Aurica ci fa accompagnare da uno dei clienti a casa sua dove la madre di Aurica ci aspetta, ci fa scegliere la stanza. Sono entrambe molto belle, come tutta la casa, con le stufe di ceramica, i letti alti e spessi, i tappeti colorati, gli utensili di legno, le tendine agli stipiti delle porte. Tutti oggetti che hanno impressi il lavoro della mano dell’uomo e per questo sono più caldi oltre che già per i loro intensi colori. Un’arte popolare frutto di evoluzioni di secoli, fino ad una regola, ad una perfezione che porta e crea in ogni casa qualcosa di proprio, unico.
Ci laviamo, ci cambiamo, parlo con la madre, mi spiega che la figlia si è laureata all’università di Cluj – una delle migliori della Romania – in Storia, poi ha fatto il concorso ed è diventata professoressa. Al concorso è risultata la migliore del județ, la prima del Maramureș, così ha potuto scegliere il miglior liceo della zona, quello di Sighet. Ora, d’estate, dà una mano alla madre con il bar, con umiltà: serve senza vergogna la țuica, la grappa di prugne romena, o una birra ai contadini del paese, lei una vera intellettuale. È il rispetto per il lavoro, qualsiasi esso sia, tipico dei maramuresciani.
Usciamo e andiamo di nuovo al bar, parliamo con Aurica. Ci spiega che forse a gennaio partirà per la Francia con un progetto di ricerca per un mese. La sua tesi, appena discussa, porta il titolo “La condizione della donna nello spazio romeno nel 1800-1850”.
Scambiamo due parole anche con gli avventori del bar, dicono di molti che sono emigrati, alcuni sono tornati. Raccontano di un cafone che, ritornato dall’Austria, ostentava una mazzetta di marchi.
È tardi, torniamo a casa per dormire, non abbiamo il coraggio di disfare il letto, violare un’intimità non nostra, quindi mettiamo i sacchi a pelo per terra.
La mattina troviamo la famiglia già sveglia. Ci accolgono in una più piccola casa annessa a quella principale, dove loro hanno dormito, dando spazio a noi. Vogliamo dare dei soldi, ma non sappiamo quanto, lasciamo i cioccolatini che Barbora aveva portato per mia nonna, poi un biglietto di ringraziamento con dentro del denaro come regalo.
Ci offrono la colazione, il caffè, ci raccontiamo vicendevolmente gli studi, scambiamo gli indirizzi. Aurica ci mostra la sua tesi di laurea. Ringraziamo. Salutiamo. Andiamo.
La mattina del villaggio è già piena di donne che vanno e vengono per la strada. Vogliamo camminare un po’, c’è un autobus, chiediamo all’autista se va a Bogdan Voda. Dice di sì, chiedo quanto sia il biglietto, ma è un servizio privato. Ion Țicala porta i ‘profeti’ al monastero di Moisei dove domani, 15 agosto, santa Maria, ci sarà una grande festa, con canti e balli, con i bambini in costume bianco. Una volta da tutte le valli si andava a Moisei a piedi, facendo anche ottanta chilometri, ora questo gruppo farà il piccolo tratto di tre chilometri da Ieud fino all’intersezione con la strada provinciale, quindi con l’autobus del signor Țicala. Ma sulla strada si vedono dei gruppi che cantando, con le bambine in bianco in testa, vanno ancora a piedi fino a Moisei.
Ion parla molto, vuole sapere da dove veniamo. È contento di sapere che Barbora è ceca, lui è stato a Praga, ci mostra il suo cappello fatto in Cecoslovacchia. Ha girato un po’ l’Europa, con il suo pullman. Ion è un uomo di cinquant’anni. Ha le idee chiare, la figlia studia, ora andrà all’estero con l’università.
Ion dice che la scuola è importante, “la scuola dice la parola” asserisce. Ora abita a Săcel, dove si è sposato, ma è nato a Bogdan Voda, è nato in una casa che ha 500 anni, e che da qualche anno si trova al Museo del villaggio di Sighetu Marmatiei.
“Siamo otto fratelli, e insieme abbiamo 112 anni di scuola”. Nella valle dell’Iza, dove le case sono di legno, l’elettricità è un optional, la gente lavora e vive come nei secoli passati, lo Stato c’è. Ci sono scuole, biblioteche, uffici postali in ogni villaggio. Un’eredità del vecchio Impero Austro-ungarico, penso, mescolata con la mentalità votata al sacrificio e al lavoro di questo popolo.
Così il Maramureș rurale, quello più lontano dalla cosiddetta civiltà, insieme alla Moldavia del nord, regione per certi aspetti simile, ha dato alla Romania i suoi più grandi uomini.
Ion Țicala racconta di uno dei suoi fratelli. Ha studiato teologia, con il massimo dei voti, si è fatto prete ortodosso, ma rifiuta la chiesa ufficiale “piena di comunisti”, dice. Non si è sposato, nonostante la Chiesa ortodossa lo consenta, perché nella Bibbia è scritto “beato chi rimarrà vergine”. Rinuncia a tutto ciò che è materiale per godere solo dello spirito. “Da sette anni non si è più sdraiato in un letto”, continua. Come dorme allora, chiedo io. Non dorme, semplicemente sta sulla sedia, “si assopisce, si sveglia, prega il Signore, si assopisce, si sveglia e prega il Signore”. Quando il prete ‘ufficiale’ di Bogdan Voda è fuori allora lui officia la messa, ma non chiede soldi come fanno gli altri preti.
C’è verità in quello che dice Ion, la Chiesa ortodossa è per certi aspetti materialista, i preti hanno famiglia e la devono mantenere, lo stato non dà soldi e loro vivono dei contributi volontari dei fedeli. Inoltre nel passato la Chiesa tollerava, per essere tollerata, il regime comunista, spesso convivevano.
Ci mostra lungo il tragitto la nuova chiesa, di cemento, alta e bianca, sovrastante le basse e nere case di legno del villaggio, e che i fedeli hanno pagato di tasca loro. Dopo il 1989 la valle è tutto un fiorire di chiese nuove, quelle vecchie di legno evidentemente non bastavano più.
Passiamo per Bogdan Voda. Ci indica, fermandosi, dov’era la sua vecchia casa di legno, a fianco della nuova, sì moderna, ma sempre con l’architettura tipica della zona. Ecco anche la vecchia chiesa, del XVI secolo, alta e slanciata con il suo campanile, tutta in legno, legno oramai scuro carico dei secoli che porta. Proseguiamo fino all’intersezione per Ieud, vogliamo anche noi andare incontro ai profeti.
Mentre li aspettiamo Ion Țicala continua a raccontare. Barbora capisce poco, le traduco. A volte, contenta, traduce lei certe parole romene di origine slava che io non conosco, e che in ceco hanno la stessa forma o simile. Ion ha ereditato un pezzo di terra, una piccola casa con qualche ettaro di bosco, “legno buono”, dice, “potrei fare anche un miliardo di lei [100.000 euro] se lo facessi tagliare”. Ma non lo farà tagliare, non gli interessano i soldi. “È un capitale, il legno. Se tieni in casa oro, passa un barbaro e te lo rapina, la foresta è là e nessuno te la può portare via”. In questa frase di Ion Țicala ci sono tutti i due millenni e oltre di storia del Maramureș. “Solo se viene una catastrofe posso perdere il bosco”, dice. Ma in Maramureș la terra non trema. In Maramureș la terra è ben salda, trattenuta dalle radici dei boschi che lo ricoprono. Foreste secolari, sfruttate con sapienza da un vecchio popolo, discendente diretto dei Daci, incontaminato dalle plurime dominazioni, a partire dai Romani, sfuggendovi nelle valli, nelle foreste, mantenendo intatti fino ad oggi costumi, tradizioni e cultura antichi.
Il legno e la sua civiltà hanno accompagnato queste genti fino ad oggi. Ion ci dice che ora molti lavorano duro per costruire case più comode, in muratura, con acqua corrente e servizi. Le più antiche e preziose sono smontate e portate al Museo del villaggio, dove rimarranno ancora per secoli, dai secoli che provengono, a testimonianza di una simbiosi uomo-legno che il tempo e il progresso non riesce comunque a cancellare, che anche nelle nuove case continua a sopravvivere anche in un singolo cucchiaio di legno, oltre che nei mobili, nelle porte scolpite e lavorate a mano, nei bauli dei ricordi.
Arrivano i profeti cantando e tenendo in alto gli stendardi raffiguranti la Maria, stendardi naturalmente tessuti e ricamati a mano. Le ragazze in testa, tutte vestite di bianco. Dietro le vecchie che portano i sacchi con le provviste fino all’indomani, quando la festa terminerà. Salutiamo e ringraziamo Ion, naturalmente ci invita da lui, dice che non si sa mai, una volta uno l’ha cercato e trovato dopo decenni
Camminiamo verso Ieud, il villaggio è laterale, interno di tre chilometri rispetto alla strada provinciale. Ieud è un grande villaggio, seimila abitanti, secolare, carico di storia. Un affluente dell’Iza lo taglia in due, alcune vecchie ora vi lavano i panni. Ogni casa attrae il nostro sguardo, attraverso piccole finestre a quattro scacchi intravediamo gli interni colorati. Faccio qualche primo piano ad alcuni abitanti.
Prendiamo a sinistra, verso il nucleo primitivo, ecco che su una piccola collina sorge la più vecchia chiesa in legno della Romania, del 1364. Non grande, circondata dal cimitero, nascosta da coevi alberi come a protezione.
A Ieud c’è un’altra vecchia chiesa di legno, del 1717. Nel cimitero di questa, la pietra funeraria di una famiglia colpisce la mia immaginazione. Vi giace un sottufficiale – romeno – della marina austriaca, morto a “La Muggia – Trieste”, durante la Grande Guerra. Solo ottant’anni fa c’era un unico stato da questa valle sperduta fino a Trieste, un impero con undici nazionalità, che univa italiani, romeni, come i cechi. Un ragazzo di montagna morto in mare. Forse tra qualche anno questo stato rinascerà, sotto le forme dell’Unione Europea anche qui, e i romeni potranno tornare a Trieste senza passaporti e visti.
C’è anche una terza chiesa, in muratura, bianca, nuova.
Ieud è un po’ la culla di una parte della cultura romena. Qui sono stati ritrovati i Codici di Ieud, il primo manoscritto in lingua romena, del 1391. Da qui sono venuti fuori grandi intellettuali: scrittori, poeti, come è poeta Andrei Muresanu, l’autore delle parole di Deșteapta-te române (Svegliati, romeno!), composto nel 1848 e oggi di nuovo inno nazionale.
A Ieud il compositore magiaro, nato in Transilvania, Béla Bartók è stato ospite per molto tempo, durante le sue peregrinazioni alla ricerca delle origini della musica. Qui ha imparato il romeno, ha trovato e classificato vecchie hora, il più tradizionale dei balli popolari, e doina, l’antico melodramma popolare, arrivando ad affermare, dopo lunghe ricerche, la loro originalità e autoctonia romena.
Ieud è pieno di bambini, le famiglie sono numerose, in media sei, sette figli per coppia. Con un bambino parlo un po’. Ci aveva accompagnato alla chiesa vecchia.
Lasciamo Ieud, torniamo sulla strada provinciale. Non abbiamo più molto tempo, rinunciamo ad andare a Bogdan Voda. Cerchiamo un passaggio per Oncesti, un signore, Vasile Dunca ci carica, ma ci può portare fino a Rozavlea, un villaggio a metà strada fra Bogdan Voda e Oncesti.
Viaggiare con l’autostop in Maramureș è davvero facile. Tutti quelli che possono si fermano. Quando non lo fanno, comunque a gesti danno la spiegazione del perché: “non ho posto”, “sono di qui”, “vado in altra direzione”. Tutti fanno l’autostop, anche le babe, le vecchiette contadine. Infatti sul furgoncino su cui Vasile Dunca ci ha caricato ci sono già una vecchia e un ragazzo.
Siamo un po’ affamati, gli chiediamo dove possiamo mangiare, “fino a Sighet è difficile”, dice, stanotte è anche Santa Maria, “venite da me”. Ci lascia davanti a casa sua, cerchiamo un altro passaggio fino al prossimo villaggio. È ora di pranzo, la strada provinciale è deserta. Vasile, dal giardino di casa sua, ci fa segno di entrare. Al secondo gesto accettiamo.
“Non c’è scelta, come al ristorante”, dice sorridendo Vasile. Piatto unico, peperoni ripieni. Conosciamo la moglie, e la piccola e timida figlia.
Mangiamo, insieme a Vasile, la moglie ci osserva, ha già mangiato, beviamo l’acqua fresca appena presa dal pozzo. Ci offrono ancora, siamo sazi ma prendiamo, sono contenti. Alla fine mi offro di contribuire alle spese, non se ne parla assolutamente, dicono. Barbora lascia allora la birra ceca che era per me, neanche quella la vogliono, è un regalo, insisto, e allora accettano. Ringraziamo. Salutiamo. Andiamo.
Camminiamo verso Sighet, visitiamo velocemente la chiesa in legno di Rozavlea del XVI secolo. Il pullman dovrebbe arrivare da lì a poco. Arriva e ci porta ad Oncești, un piccolo villaggio molto antico, raccolto, con tante piccole allegre case, di legno naturalmente. Cerchiamo anche qui la chiesa in legno, ma due paesane ci dicono che non c’è più da tempo, è stata portata al Museo del villaggio di Sighet. Prendiamo un autobus fino a Sighet, e da lì con un altro a Sapânța, un villaggio famoso per il suo cimitero.
A Sapânța c’è il Cimitirul Vesel, il cimitero allegro. Qui dal 1935 il prete della chiesa, Ion Stan Patras, ha iniziato la tradizione di scolpire grandi e complesse croci, tipiche delle zona, di chi muore e qui è sepolto, con un colorato ritratto del defunto. Sotto il ritratto una breve descrizione burlesca e in rima di alcuni tratti della sua vita e della sua attività.
La visione d’insieme del cimitero è piacevole: tante croci dipinte con colori vivaci su sfondo azzurro. Naturalmente prima di morire, nel 1977, lui stesso si è scolpito la propria croce, e ora riposa al centro del suo pittoresco cimitero, dove la sua croce domina con questi versi:
De cu tînar copilas
Io am fost Stan Ion Patras
Sa ma ascultat oameni buni
Ce voi spune nus minciuni
Cît zile am trait
Rau la nime n-am dorit
Dar bine cît am putut
Orisicine mia cerut
Vai saraca lumea mea
Ca greu am trait în ea
Da quando ero un giovane bambinello
Io sono stato Stan Ion Patras
Ascoltatemi uomini buoni
Quello che dirò non sono bugie
Tanti giorni che ho vissuto
Male a nessuno ho voluto
Ma il bene, quanto ho potuto
A chiunque me l’ha chiesto
Oh povero mondo mio
Con quanta fatica vi ho vissuto
Lasciamo l’allegro cimitero e visitiamo la casa-memoriale dell’originale artista, anch’essa all’insegna dell’umore e del colore. Qui vi abitano ora gli eredi, che continuano la tradizione con tante altre scherzose croci.
Dopo aver cenato in un campeggio fuori del villaggio, sul bordo di un torrente e circondati dalle montagne del Maramureș, la notte la passiamo a Sapânța. Nei dintorni del cimitero un ragazzino ci aveva avvicinato per chiederci se avessimo voluto una camera per dormire. Ci porta quindi dalla zia, che ci tiene in casa per la notte. La mattina, dopo aver bevuto il latte fresco della mucca del cortile, e dopo aver dato volontariamente dei soldi, riprendiamo il viaggio.
Sulla strada nei pressi della fermata dell’autobus un vecchio risponde al mio saluto, e facendo un tratto di strada insieme, ci chiede da dove veniamo, ci mostra le mani di chi lavora la terra, ci dice che è professore di scuola, e naturalmente anche Grigore Pop ci invita da lui, pure per dormire, dice, se torneremo da quelle parti.
Fino al Museo del villaggio di Sighet, dove andiamo da Sapânța, ci porta un giovane camionista di Rozavlea. Sono le dieci, il museo ha appena aperto, poco fuori da Sighet è posto su una bella collina. Qui sono state trasportate le case più belle e originali, come le più antiche.
Con un numeroso gruppo di giovani italiani usufruiamo della guida, proprio il direttore del museo. Chiaramente di grande cultura, egli ci mostra, dall’alto della collina, che poco più in là c’è il centro dell’Europa, cioè il punto equidistante tra la costa del Portogallo e gli Urali, tra Capo Nord e la costa meridionale di Creta.
Come a suffragare l’autenticità dell’affermazione, per allontanare sospetti di nazionalismo, dice che il cippo è stato posto dagli Austriaci, prima della Grande Guerra.
Visitiamo l’interno di alcune case, sapientemente disposte sui pendii e gli spiani della collina, e dove dalla sommità domina l’antica chiesa di Oncești. Un villaggio somma di villaggi, una ricostruzione scientifica, ma non per questo innaturale, di questa parte unica del mondo.
La stanza principale delle case è la stanza della vita delle case del Maramureș. Il soffitto è diviso in due dalla trave che lo sostiene e che divide anche simbolicamente la casa. Da una parte il letto, dove si procrea e si muore, dall’altra il tavolo dove il neonato viene battezzato con la testa a oriente e il morto viene celebrato. Da una parte la vita reale, dall’altra quella spirituale.
Vediamo, anche nell’interno, la casa Buftea di Bogdan Voda, le cui fondamenta sono del XIV secolo, e dove è nato il nostro Ion Țicala. Pensiamo che sia bello essere nati in una, a suo modo, opera d’arte. Un po’ ci tocca il fatto di ritrovarci con altri visitatori sconosciuti nella stanza dove cinquant’anni fa la madre di Ion aveva le doglie, e dove prima di lui forse altre venti generazioni hanno visto la luce.
Parliamo un po’ con il vice-direttore, ingegnere. Grande conoscitore della storia, mi conferma che sessant’anni fa oltre la Tisa, visibile a un paio di chilometri dalla nostra altura, c’era la Cecoslovacchia. La cosa colpisce me e Barbora, sessant’anni fa i nostri due paesi, ora apparentemente così lontani, erano confinanti.
Oltre la Tisa, ora Ucraina, ci sono i due terzi del Maramureș storico, il voivodato medioevale una volta unito. L’Ingegnere ci spiega come il Maramureș sia un’unità. Dal punto di vista umano, per la millenaria presenza dei romeni, prima Daci, quando la zona era l’unica parte della Dacia al di fuori del controllo dell’Impero Romano, e gli abitanti erano chiamati Daci Liberi. Dal punto di vista geografico essendo una depressione circondata dalle montagne e attraversata dalla Tisa.
I romeni, che hanno sempre subito la dominazione straniera, si sono via via ritirati all’interno delle valli e sulle montagne, ancora oggi oltre la Tisa ci sono enclave di romeni che vivono eremiti nelle zone meno accessibili. Le città sono state popolate dagli ungheresi, oltre che da altre minoranze portate come coloni dall’Impero Absburgico, i cechi ad esempio come esperti minatori. Oppure gli ebrei che nel XIX secolo, fuggendo dalle persecuzioni della Russia zarista, hanno qui trovato rifugio e colonizzato le città. Ai romeni è rimasto il bosco. Quando l’Impero Austro-ungarico si è dissolto, la Tisa è diventato il confine che ha tagliato il Maramureș storico in due, dividendolo fra Romania, da una parte e Cecoslovacchia e Polonia, dall’altra. Poi l’espansionismo sovietico ha spostato la Polonia e la Cecoslovacchia facendo entrare la Rutenia, cioè l’Ucraina occidentale, con il nord del Maramureș all’interno dell’URSS.
L’Ingegnere parla poi anche del periodo socialista e di Ceaușescu. Di come il regime abbia distrutto la società civile romena dell’anteguerra. Soprattutto coloro che, con la loro disciplina, avrebbero potuto intimidire i nuovi arrivati, quindi per lo più generali dell’esercito, storici e giuristi, come naturalmente la classe politica democratica e i preti. Il loro posto è stato preso dai cosiddetti ‘figli del popolo’, in realtà ignoranti e incolti. Così l’economia romena, prima della guerra una delle più dinamiche d’Europa, la più ricca dei Balcani e dell’est Europa, si ritrova oggi agli ultimi posti in Europa.
Con l’Ingegnere parliamo anche di Ieud, villaggio rimasto nel cuore a Barbora e a me, e di dove anche l’Ingegnere è di origine. “Ieud”, ci dice, “è sempre stato un villaggio scomodo per Ceaușescu, da qui sono venuti molti intellettuali contestatori del regime, e per questo ha subito una dura repressione”. “Ieud”, continua con rammarico, “oggi non è più il villaggio fiorente che è stato”.
L’Ingegnere è aspettato da altri visitatori, noi ritorniamo con un altro breve passaggio fino a Sighetu Marmației, la città più a nord della Romania. Città importante e ricca di monumenti nonostante la dimensione modesta, vi sono due belle chiese, ma siamo più attratti dalla prigione-memoriale. Qui dal 1948 al 1955 è stata rinchiusa l’aristocrazia romena. Quei politici, storici, giuristi, preti, intellettuali di cui ci ha parlato l’Ingegnere. La prigione di Sighet ha portato alla morte cinquantadue prigionieri politici, per la vecchiaia dei reclusi, ma più per le dure condizioni di detenzione. Nel 1955 quando, dopo la morte di Stalin e con la firma del trattato di Vienna sui diritti dell’uomo, furono liberati i sopravvissuti, ormai erano dei nessuno: il regime, illegalmente instaurato dai sovietici, poteva considerarsi ben saldo.
Perché è stato scelto Sighet? “Per la vicinanza con l’URSS”, ci dice la nostra gentile guida, “in caso di una rivolta, di una sommossa, i prigionieri in meno di mezz’ora sarebbero stati ‘al sicuro’ in URSS”, portati con la linea ferroviaria che va in Ucraina direttamente da Sighet con lo scartamento russo.
Il restauro ha riportato alle condizioni originali il complesso. La prigione-memoriale è anche un’interessante mostra. Ogni cella ha un tema, qualcuna è dedicata ai grandi uomini della Grande Romania imprigionativi. Ci sono anche i feticci delle manifestazioni comuniste con i cartelli mistificatori, i giornali che invitavano all’odio di classe. Una campagna orchestrata dai sovietici per dare al Partito comunista romeno, storicamente sempre irrilevante, l’autorevolezza della ‘Rivoluzione’.
Sempre a Sighet visitiamo il museo del Maramureș, ricco di oggetti di legno e manufatti, come i vestiti e i festosi costumi popolari, i tappeti, o le maschere del carnevale, di questa popolazione, e che abbiamo già visto in tante altre forme nelle case dei nostri ospiti. Siamo gli unici visitatori, purtroppo notiamo.
Il treno ci riporta lentamente a Bucarest. Da Sighet il treno attraversa il Maramureș passando per un parte della valle del Vișeu, da noi non vista, sbucando sulla valle dell’Iza a Săcel, nostra prima tappa.
La valle del Vișeu, soprattutto nella parte alta, è stupenda. Stretta con tanti piccoli villaggi, case di legno sui suoi morbidi fianchi quando si apre, e il treno lento che con ampie volte vi si insinua. Salutiamo i bambini che giocano nei campi. Ferma a tutte le stazioni, così ci regala ancora i volti dei contadini che tornano dal lavoro della terra. Salutiamo, salutiamo tutti. Il treno è diesel, e il suo rumore ricorda quelli a vapore, sembra davvero di essere tornati a tanto tempo fa, com’era un po’ così dappertutto nell’Europa rurale e montana.
Viene la sera, il treno taglia la notte, con Barbora chiudiamo gli occhi con ancora vive le immagini del Maramures, delle sue case, dei suoi boschi. Delle sue genti. Terra lontana: nello spazio, nel tempo. Terra che abbiamo un po’ avvicinato in tre giorni intensi e lenti. Terra a noi ora amica, almeno così ci sembra.
E così è: amica, come Aurica, Ion, i Dunca, l’Ingegnere, e tutti i suoi abitanti che non abbiamo conosciuto, ma che di sicuro ci avrebbero accolto, e ci accoglieranno, a braccia aperte come figli della loro Terra. La revedere Maramureș.